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Dieta e Infiammazione

2020-03-06 14:21

Dott. Daniele Marcon

Nutrizione,

Dieta e Infiammazione

Nell’articolo di oggi approfondiamo il legame che c’è tra infiammazione e dieta e parleremo di cosa possiamo fare nel pratico per migliorare la nostra

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Nell’articolo di oggi approfondiamo il legame che c’è tra infiammazione e dieta e parleremo di cosa possiamo fare nel pratico per migliorare la nostra salute.

 

Partiamo con ordine. Cos’è l’infiammazione?

 

L’infiammazione, anche chiamata flogosi, è un meccanismo di difesa innato contro l’azione di agenti fisici, chimici o biologici che ha come fine l’eliminazione della causa iniziale del danno. E’ un meccanismo di protezione che viene attuato in modo automatico dal nostro organismo e che mette in moto il processo che poi, in un secondo momento, porterà alla riparazione.

 

I segni tipici di questo processo sono: calore della parte infiammata, arrossamento, tumefazione, dolore e alterazione della funzione (calor, rubor, tumor, dolor, functio laesa). Sono tutti elementi che possiamo notare quando ad esempio ci facciamo male: quando ci graffiamo, sbattiamo la testa o ci scottiamo perché abbiamo toccato una pentola bollente.

 

A livello tissutale si verificherà una vasodilatazione, un aumento della permeabilità dei capillari, stasi della circolazione a livello locale e infiltrazioni dei leucociti. Tutte fasi che hanno come obiettivo, come si diceva all’inizio, quello di riparare il danno subito e iniziare il processo di recupero.

 

Questo meccanismo può essere classificato in:

 

  • Infiammazione acuta: un tipo di risposta che si mette in atto ad esempio a seguito di un’infezione e che, solitamente, riesce a risolversi entro pochi giorni
  • Infiammazione cronica: un tipo di risposta che si ha quando lo stimolo dannoso è persistente o quando la risposta infiammatoria non riesce ad essere efficiente

 

Contrariamente a quella acuta, l’infiammazione cronica è spesso silenziosa e causa un danno generalizzato all’organismo.

 

In particolare, l’infiammazione cronica di basso grado può non essere evidenziata facilmente, dal momento che alcuni marcatori tipici potrebbero risultare nella norma (es. velocità di eritrosedimentazione e proteina C reattiva), tuttavia è stato evidenziato come questa condizione sia legata ad alcune patologie come il diabete di tipo 2, coronaropatie e asma.

 

Veniamo quindi al discorso nutrizionale.

 

Sebbene l’infiammazione cronica non sia l’unico fattore che porta a queste malattie, rimane comunque un processo fortemente influenzato da quello che mangiamo.

 

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Uno dei principali fattori dietetici che influenza l’infiammazione è l'eccesso di  carboidrati semplici.

 

Il consumo frequente di carboidrati raffinati, ad alto carico glicemico, porta ad iperglicemia cronica: il carico glicemico altro non è che un parametro che tiene conto della quantità e della qualità dei carboidrati (indice glicemico), di conseguenza maggiore è il carico glicemico e maggiore sarà l’aumento di glicemia e insulinemia. Livelli eccessivi di glucosio ematico nel tempo causano un aumento della produzione di radicali liberi e citochine proinfiammatorie. Tutto ciò porta, parallelamente, ad un aumento della secrezione pancreatica di insulina per cercare di ridurre la glicemia.

 

L’insulina influenza l’attività degli enzimi coinvolti nella conversione di acido linoleico ad acido arachidonico (delta 5 e delta 6 desaturasi, vedere immagine qui sotto). Di conseguenza, maggiore è la risposta insulinica e più acido arachidonico è prodotto (glucagone, acth, adrenalina e glucocorticoidi invece sono ormoni che inibiscono queste vie biosintetiche). Il delta 6 desaturasi in realtà ha un’affinità maggiore per gli omega 3 (acido α linolenico) rispetto agli omega 6, quindi, a rigor di logica dovrebbe essere prodotto maggior EPA e DHA (acido  eicosapentaenoico e acido docosaesaenoico) seguendo il percorso nello schema sotto, tuttavia questo non succede perché la dieta occidentale è fortemente squilibrata sugli omega 6.

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Passiamo quindi al capitolo lipidi.

 

Come si può vedere dall’immagine, dall’acido linoleico (omega 6) si arriva all’acido arachidonico, dall’acido α linolenico (omega 3) invece all’EPA e al DHA.

 

Da questi precursori derivano sostanze particolarmente importanti che prendono il nome di eicosanoidi che si dividono in prostaglandine e leucotrieni: di questi ne esistono di diversi tipi e con funzioni molto vaste. Semplificando possiamo dire che dagli omega 6 derivano eicosanoidi proinfiammatori e proaggreganti, dagli omega 3 derivano eicosanoidi antiinfiammatori e antiaggreganti.

 

Attenzione. Questo può farci pensare che i primi, i derivati degli omega 6, siano dannosi per il nostro organismo e che gli omega 3 siano invece benefici. In realtà non è così semplice.

 

Non ha senso parlare di “buono” e “cattivo” considerando queste sostanze in modo assoluto. Per stare in salute abbiamo bisogno di entrambe nelle giuste concentrazioni.

 

Ed è da qui che parte la questione su quale sia il miglior rapporto tra omega 6 ed omega 3. I LARN (Livelli di assunzione di riferimento per la popolazione italiana) consigliano di mantenere un rapporto di 4 – 5:1 (omega 6: omega 3) raggiungibile, in termini pratici, con un consumo di 2 – 3 porzioni di pesce a settimana. Questi numeri avrebbero infatti un impatto positivo su diverse patologie come l’artrite reumatoide, l’asma e le malattie cardiovascolari.

 

Il problema è che un’alimentazione di tipo occidentale difficilmente arriva a queste quantità: c’è poco da fare, mangiamo poco pesce e semi oleosi e facciamo il pieno di merendine, prodotti raffinati e grassi sbilanciati sugli omega 6.

 

Sebbene il rapporto di <5:1 venga sostanzialmente confermato anche da altre organizzazioni internazionali e linee guida, ad oggi le evidenze non ci danno ancora dei numeri precisi. Gli studi sottolineano in ogni caso di non superare mai il rapporto di 10:1.

 

Da limitare sono anche i grassi trans: anche questi presenti maggiormente in prodotti raffinati, snack dolci e in piccole quantità nella carne e nei latticini. Alti livelli di questi possono portare ad alterazione dei lipidi ematici e aumento dei fattori proinfiammatori.

 

Passiamo adesso a frutta, verdura e fitochimici.

 

Una dieta corretta che contrasti l’infiammazione prevede dosi abbondanti di frutta e verdura: alimenti ricchi in acqua, poco densi da un punto di vista calorico e ricchi di micronutrienti benefici. Diversi studi mettono in evidenza come diete ricche in frutta e verdura sono correlate a livelli di markers infiammatori più bassi.

 

E’ consigliato sempre consumare prodotti freschi di stagione, più ricchi in nutrienti biodisponibili e, di conseguenza, con maggiore effetto antinfiammatorio solitamente ad un costo minore.

 

Nella dieta occidentale, il consumo di cibi processati a scapito di piatti freschi preparati al momento ha portato ad una riduzione di molti composti importanti come ad esempio i polifenoli. Questi ultimi occupano un ruolo importante non solo per la loro capacità di neutralizzare i radicali liberi ma anche perché in grado di stimolare le difese antiossidanti endogene, attraverso la regolazione del fattore di trascrizione Nrf2, e inibendo l’Nf-kB, altro fattore coinvolto nell’aumento della risposta infiammatoria.

 

Tutti i meccanismi visti in precedenza hanno un grande “manipolatore” alle spalle, stiamo parlando dell’eccesso calorico.

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Gli effetti legati al consumo di zuccheri, l’aumento dell’insulina e la produzione di sostanze pro-infiammatorie sono tutti processi stimolati dall’eccesso di calorie introdotte e facilitati da una qualità generale scadente della propria dieta.

 

L’eccesso calorico porta nel tempo ad aumento dell’adiposità. L’insieme degli adipociti costituisce un tessuto metabolicamente attivo che contribuisce all’infiammazione cronica di basso grado attraverso il rilascio di grandi quantità di citochine pro-infiammatorie.

 

Chiaramente, una riduzione delle calorie con un contestuale miglioramento delle scelte alimentari porta a riduzione delle sostanze infiammatorie, a miglioramento della sensibilità insulinica e riduzione della glicemia, ottenendo di conseguenza una riduzione dei meccanismi dannosi analizzati. E’ per questo che di base, se si vuole ridurre l’infiammazione, è CRUCIALE tornare nella fascia del normopeso!

 

La dieta antinfiammatoria

 

Ok, se siete arrivati fino a questo punto vi starete chiedendo cosa serve per migliorare la propria alimentazione e ridurre l’infiammazione. Di seguito vi lasciamo alcuni spunti su cui è fondamentale lavorare:

 

  • Carboidrati: preferire cereali integrali a scapito di zuccheri e prodotti raffinati. Preferire alimenti come l’avena, il grano saraceno, l’orzo e il farro.
  • Proteine: ridurre il consumo di carne e aumentare quello di pesce (2 – 3 volte a settimana) preferendo fonti come salmone, sardine, alici, sgombro e sogliola. Per il resto l’apporto proteico derivante da fonti vegetali dovrebbe prevalere, per questo è importante introdurre buone quantità di legumi
  • Grassi: come detto in precedenza, è necessario avere un’adeguata dose di omega 3 nella propria alimentazione. Questo è possibile attraverso il consumo di pesce, semi e frutta oleosa (semi di lino, semi di chia, noci…) anche se le fonti vegetali non hanno lo stesso effetto. L’integrazione di omega 3 è da tenere in considerazione solo se necessaria e sempre sotto stretta osservazione di uno specialista.
  • Consumare frutta e verdura fresca in grandi quantità e ad ogni pasto, cambiando colori e metodi di preparazione frequentemente (per poter sfruttare i vantaggi derivanti dai diversi metodi di cottura)
  • Condire il tutto con olio di oliva e spezie. Queste ultime hanno dei ruoli benefici nella riduzione delle citochine proinfiammatorie (IL2, TNF-α, IL8). Dal momento che ne vengono consumate in piccole quantità si consiglia di introdurle spesso (zenzero, curcuma, pepe, origano…)
  • Altro: altri alimenti benefici di cui è stato evidenziato un effetto sull’infiammazione sono tè ed alcol. Se sul primo non ci sono problemi nell’assunzione, l’alcol chiaramente merita un discorso a parte: al di là dei piccoli benefici che alcune bevande possono avere, bisogna ricordare che l’alcol è una sostanza cancerogena, per questo il suo consumo va sempre contestualizzato e valutato caso per caso.
  • Istamina: quest’ultimo è un mediatore chimico coinvolto nelle reazioni infiammatorie. Può trovarsi negli alimenti a seguito di fermentazione batterica e per questo è presente in molti cibi che, per motivi di produzione o per conservazione, ne subiscono qualche forma (vino, formaggi, affettati, birra…). Si ritrova inoltre nei pesci che fanno grandi spostamenti, prodotta per difendersi dall’acido lattico formatosi a seguito dell’eccessivo movimento. Alcuni soggetti ne sono particolarmente sensibili, in questi casi è importante ridurre la quantità e la frequenza dei cibi che la contengono (pomodori, pesce affumicato, salsicce, affettati, formaggi fermentati e stagionati, alcolici…) e di quelli istamina-liberatori (cioccolato, alcuni frutti, molluschi, crostacei, caffè…). Attenzione, non sempre si avranno sintomi a seguito dell’ingestione di questi alimenti: le risposte variano di persona in persona e in base al contenuto (molto variabile) dell’istamina, per questo è importante evitare di escludere cibi senza criterio e farsi aiutare da uno specialista

 

Oltre a cosa mangiare, un punto troppo spesso trascurato è il come mangiare. Mangiamo spesso di fretta, arrabbiati o distratti, tutto ciò non fa altro che aumentare lo stress ed anche questo è stato visto incidere sull’infiammazione. Riappropriamoci dei nostri tempi, diamo spazio ai pasti e rallentiamo: il cibo ha una sua dignità, deve essere gustato. Non viviamo solo per introdurre calorie nel nostro corpo.

 

Per approfondire:

  • https://www.health.harvard.edu/staying-healthy/foods-that-fight-inflammation
  • Ricker MA, Haas WC. Anti-Inflammatory Diet in Clinical Practice: A Review. Nutr Clin Pract. 2017;32(3):318–325. 
  • Giuseppe Arienti. Le basi molecolari della nutrizione. Piccin.

 

    

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